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In My Shoes - © Marta Costantino 2013
"In che senso, quanta forza ho?" trasalì Giannini.
"Venga con me: non abbiamo molto tempo!" rispose Cesare dirigendosi di fretta verso l'ingresso del fienile. Giannini non capiva cosa stesse succedendo: "Ma perché? Chi è che sta arrivando? Siamo in pericolo?"
"Giannini, per Dio: le domande le tenga per quando avremo tempo. Adesso si muova da lì che è esattamente in traiettoria!"
"Qua-le tra-iet-to-ria?" chiese Giannini scandendo ogni sillaba. Cesare sembrava molto agitato e questo si rifrangeva in Giannini: si conoscevano solo da una manciata di ore, ma aveva il sentore che se quell'uomo era così preoccupato, probabilmente aveva una buona ragione per esserlo. Si sentiva come quei pupazzetti incollati al cruscotto a cui ciondola il capo: un peso invisibile, che taluni chiamano panico, ne aveva radicato i piedi alle fondamenta del porticato. Cesare tornò indietro e prese Giannini per un braccio: "Cristo Giannini, si sposti o le faranno male!"

Quei suoni distorti in sottofondo avanzavano come fenditure nere, solcando quella palla di ghiaccio perfettamente sferica in cui improvvisamente si era trasformata la terra: il tempo si contorceva in un invisibile conto alla rovescia, stringendo le viscere come le contrazioni di un parto.
Certe cose sembravano nate apposta per fare paura.
"Andiamo! Forza! Si muova di lì!" disse Cesare trascinando Giannini all'interno. 

"Non chiuda quella porta: la spalanchi!"
"Come la spalanco? Ma che...?"
"Non faccia domande! Cazzo! Lasci aperta quella dannata porta e mi segua!" disse Cesare rosso in volto. "Clelia: ci serve una mano per i materassi, presto: hanno quasi percorso tutto il viale!"
"I materassi?" chiese Giannini inseguendo Cesare che correva verso il fondo del fienile.
"Risparmi il fiato," disse Clelia camminando scalza a piccoli passi veloci come una geisha "abbiamo veramente poco tempo."
"Forza! Muovetevi!" gridò Cesare, sparendo dietro agli scaffali.
"Cesare, ma dove diavolo è finito?" chiese Giannini che davanti a sé vedeva soltanto un muro. Si fermò: a circa un metro da terra, su quella parete, c'erano segni scuri e pezzi di intonaco mancanti. Là sotto, sul pavimento, c'era qualcosa di molto strano: qualcosa che aveva già visto altrove. Quelle tracce ricordavano la miniatura di un copertone divorato in frenata dall'asfalto. Anche gli scaffali vicini erano sbrecciati sugli angoli.
"Sono qui! Venga! Prenda una estremità e tiri!" gridò Cesare.
Alla sinistra di Giannini c'era una porta, nascosta alla vista da quella struttura che aveva l'audacia di sfidare la gravità con la propria altezza. Da un antro nel muro, fece capolino l'estremità di qualcosa di grande e di blu: "Cesare! Ma questo è... un materasso da palestra!" disse Giannini tirando con tutta la forza che aveva.
"Sì, esatto! Ginnastica artistica, per la precisione. Non lo faccia cadere Giannini che non abbiamo tempo per sollevarlo nuovamente! Lo tenga in verticale e lo trascini contro il muro fino in fondo! Si muova che ce ne è un altro!"
Clelia spingeva con le mani, lasciando piccole orme aggraziate sulla superficie in PVC: "Attenzione a non scivolare Clelia: ti sei già fatta male una volta" disse Cesare.
Il tintinnio metallico su cui viaggiavano quelle grida era quasi giunto al portico.
Cesare spinse fuori il secondo materasso: "Dai che ce la facciamo! Forza!" gridò spingendo con una spalla. Giannini e Clelia trascinarono il capo opposto aggrappandosi alla maniglia.
Fecero l'ultimo sforzo appena in tempo: due persone varcarono la soglia a tutta velocità.
"Clelia! Dentro lo sgabuzzino! Vai!" gridò Cesare.
Giannini si girò e sgranò gli occhi, senza riuscire a credere a ciò che stesse vedendo. 

Due ragazzi su due sedie a rotelle si stavano strattonando. Non era una gara a chi arrivasse per  primo: era un vero e proprio duello. Se erano lontani, si picchiavano con le stampelle; se vicini, a mani nude. Al secondo non andò bene che il primo fosse in lieve vantaggio: così prima lo bastonò con ferocia su una spalla e poi usò l'impugnatura della gruccia come un uncino per aggrapparsi e cercare di superarlo. Il primo grugnì qualcosa di incomprensibile, ripiegandosi su se stesso e contorcendosi per il dolore: riuscì ad aggrapparsi con una mano alla giacca del primo e strinse così forte da strappargliene un pezzo. Quando il secondo riprese velocità, il primo cercò di farlo capottare conficcando la stampella nei raggi della ruota: la risposta dell'altro, un ceffone secco sulla nuca, non tardò ad arrivare. Spingevano, si fermavano, se le davano, ripartivano: due piccoli tornado si accendevano e spegnevano come un Minipimer, volteggiando in spirali inarrestabili verso il fondo del fienile.
Giannini, che aveva virato il colore dell'incarnato verso il gesso alabastrino, stava in piedi come una statua greca in mezzo ai due materassi: attraverso due pupille grosse come monete da cinquanta centesimi, diede un volto al concetto di ira.
Una mano afferrò saldamente il suo braccio: "Venga Giannini o massacreranno anche lei!"
Cesare spinse Giannini in quell'antro buio e chiuse la porta: esattamente una frazione di secondo prima che quei due si schiantassero in un tonfo sordo contro i materassi, catapultando quel che restava dei loro corpi contro gli scaffali. 

Per una manciata di secondi fu il silenzio: il tempo scandito dal battito del cuore di Giannini e da quell'aorta che pompava come un'idrovora. Chiusi lì dentro al buio come in rifugio ai tempi della guerra, udirono un fruscio: là fuori qualcuno stava strisciando lentamente sul pavimento. Una voce affaticata biascicò: "Ilio i utana!"
Un'altra, poco più in là, rispose: "Ua mae!"
"Okay, sono vivi: adesso possiamo uscire" disse Cesare.

Cesare aprì piano la porta: dietro di lui si affacciarono come due lemuri, prima Clelia e poi Giannini.
Due ragazzi giacevano in terra tumefatti e sanguinanti: le carrozzine ribaltate e le stampelle sparpagliate in una versione post atomica dei bastoncini Shangai. 
"Difficilmente mi esprimo in questi termini: ma voi siete, e rimarrete, due deficienti!" disse Cesare.
"Ma quindi li conosci?" chiese Giannini alle sue spalle.
"Certo che li conosco!" rispose Cesare voltandosi. "Lui è Luca" disse indicando il primo. "E lui è Cristiano" proseguì spostando l'indice verso l'altro. Quei due stavano lì come feti gemelli abortiti da un'arpia: mezzi rattrappiti e con il volto contorto in smorfie che ne deturpavano i lineamenti.
"Esae afanulo! Aiu-ta-mi ao!" disse Luca.
Cesare si avvicinò. Si accovacciò e disse a Luca: "Sento che qualche consonante siamo riusciti a recuperarla: il vostro logopedista fa veramente miracoli. Peccato possa veramente poco sulle vostre teste di cazzo. Dai, come i bambini: come si dice?"
Luca sospirò; con lo sguardo inchiodato agli scaffali prese del tempo prima di rispondere infastidito: "E avoe."
"Bravo! Si dice per favore" disse Cesare. Si voltò verso Giannini e Clelia e disse loro: "Per cortesia, sollevate le due carrozzine che dobbiamo caricarci sopra questi due dementi." E rivolgendosi a Luca e Cristiano aggiunse: "Le stampelle le tengo io."
Quei due risposero con una smorfia: ma data la rusticità della tela, la variazione di tono divenne un'impercettibile sfumatura.

Dopo che li ebbero rimessi sulle carrozzine, Cesare volse un monito a quelle salme indemoniate: "Provate a muovere le mani anche soltanto di mezzo centimetro, che vi giuro ve le amputo un dito alla volta! Ci siamo capiti?"
Lo guardarono: zitti come due ragazzini delle medie beccati con un porno.
"Clelia: tu spingi Luca. Giannini: lei si occupi di Cristiano e segua Clelia che sa dove portarli" disse Cesare.

Clelia si fermò davanti a tre scarpe da ginnastica: una aveva perso la compagna, le altre due erano ancora assieme. Diverse ma simili, giacevano sul terzo ripiano da terra, ad un'altezza dove potessero essere guardate facilmente negli occhi da quei due. Clelia posizionò Luca, lasciando lo spazio per Cristiano, così che le scarpe potessero essere nel mezzo: si ricordava perfettamente di quella volta in cui una manciata di centimetri fu un pretesto per picchiarsi. 
Li guardò. Le espressioni del volto contratte e i lividi attorno alle orbite. I capelli arruffati e tagliati male. Quelle tute vecchie: un po' lise ed un po' sgualcite. Le mani paonazze con la pelle attorno alle unghie incisa dal freddo. Sembravano due vecchi ospiti di quei manicomi dove le persone venivano abbandonate e lasciate divorare dalla loro psiche famelica. Sì, facevano pena: ma avevano una fiammella sinistra che brillava in fondo agli occhi; se una luce nerastra sarebbe mai potuta esistere, avrebbe scelto quei luoghi come dimora.
Si spostò alle loro spalle: accarezzò i capelli ad entrambi, in un gesto di tenerezza.
Lei non lo vide, ma a quel tocco, il loro sguardo si assottigliò, facendosi ancora più indecifrabile.

Le scarpe tardarono a parlare. Sbuffarono per un po': come quando si soffia l'aria dal naso con rassegnazione, perché la pazienza e la comprensione sono finite chissà dove e chissà da quanto e le parole sono diventate orpelli superflui. Se solo ne avessero avuta una, avrebbero scosso la testa. 
"Parlare di voi è straziante: ricordare ciò che vi siete fatti è tremendo. Siete una brutta storia, di quelle che si spera sempre siano soltanto leggende. Eravate entrambi due promesse dell'hockey su ghiaccio: avevate talento, forza fisica, tecnica. Avevate una vita ed avreste avuto un futuro. Giocavate in due squadre diverse: la parola avversari per voi assumeva un significato  che si spingeva oltre il gioco. Era qualcosa che pungeva in petto. Non era una cosa di squadre: era una cosa tra voi due. Nessuno sa il perché: forse nemmeno voi. Vi punzecchiavate e sfidavate continuamente: dentro e fuori dal campo. Ogni partita una rissa. Luca: un giorno hai letto una frase che ti ha colpito. Ti piaceva e volevi fare colpo sul tuo pubblico virtuale di seguaci, sfruttando facilmente un pensiero scritto da qualcun altro: come se un po' del bagliore di quella riflessione potesse illuminare te e riflettersi sulla la tua platea. L'hai postata su Facebook: recitava "Essere intelligenti a volte è doloroso". Ti aspettavi un seguito di gloria: assaporavi già i like che sarebbero caduti come una pioggerella azzurrina. Ma Cristiano si è messo di mezzo e scatenando l'ilarità generale ha risposto: "E tu cosa ne sai?" Tanti like al tuo post, quante risate al suo commento: pari. Tutti se ne sono dimenticati in fretta: l'indice e la vita scorrono veloci e indifferenti su quegli schermi. Tranne voi due. Per voi fu diverso: prendevate le provocazioni molto, molto seriamente.
Ventiquattro ore dopo: il caso ha voluto foste entrambi in montagna. Snowboard: avevate in comune anche questo. Quel giorno, sulla pista, vi siete fiutati come animali: vi siete fermati, vi siete tolti il caso e vi siete chiamati per nome. Siete corsi uno incontro all'altro ed avete iniziato a picchiarvi ferocemente sotto gli occhi attoniti dei vostri amici e delle vostre compagne: non riuscivano a capire cosa stesse succedendo. E tutto quello che non doveva accadere, è accaduto troppo in fretta: senza che nessuno riuscisse ad impedirlo. Vi siete spinti sino al bordo della pista: nascosta lì sotto, c'era una lastra di ghiaccio. Siete scivolati entrambi: le rocce, parecchi metri più sotto, hanno abbracciato le vostre spine dorsali e le vostre scatole craniche. Avete riportato danni irreversibili nei movimenti e nel linguaggio. Indisponenti, arroganti, violenti, intrattabili: la sostanza scabrosa di cui eravate fatti la si fiutava anche prima dell'incidente; è poi esplosa come un miasma tossico all'olfatto. Tutti vi hanno abbandonato, perché se prima eravate male poi siete diventati peggio. La vostra ferocia ha incontrato l'ironia del destino, intrecciando indissolubilmente le vostre vite: c'era un solo appartamento privo di barriere architettoniche messo a disposizione dal comune per disabili in difficoltà. Ed è l'appartamento dove ora siete costretti a convivere.
Quando raccontiamo la vostra storia, non parliamo di Luca e Cristiano: parliamo di voi due. Siete la diade che non volevate essere: chissà quante cose amavate entrambi senza saperlo. E chissà come sarebbe andata se ve ne foste accorti. Voi due siete la dimostrazione di come un perché a volte sia difficile da trovare. Quel perché che non avete ancora cercato: è sepolto lì, nelle vostre anime tetre che non si sono mai azzardate verso la luce. Lì dentro, in qualche parte inaccessibile anche a voi stessi. Ammesso che un perché a tutto questo vi sia: ed è forse questo il lato più oscuro dell'umanità di cui voi siete incarnazione."

Luca e Cristiano non dissero niente: fecero per muoversi ma un'occhiata di Cesare fu sufficiente.

I tre portarono fuori i due: li lasciarono lì, al freddo, nella neve.
I due si spinsero a fatica in quelle carrozzine, uno accanto all'altro: giunti all'inizio del viale si dissero qualcosa con poche consonanti e molte vocali e ripresero a bastonarsi con le stampelle.
Cesare, Clelia e Giannini rientrarono al caldo nel fienile.

"C'è redenzione Cesare?" chiese Giannini togliendosi le scarpe all'ingresso, come ogni buon ospite.
"A volte sì Giannini," rispose Cesare sospirando "a volte no. Però c'è sempre speranza: perché rinunciare alla speranza significa rinunciare ad una parte di se stessi. Anche se..."
"Anche se cosa?"
"Le speranze non sono fossili, possono mutare: è questione di rivoluzioni."
"In che senso?"
"Questo concetto potrà spiegarlo molto bene Aurora. Porti pazienza: dovrebbe arrivare a breve."

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